Quella di Herbie Hancock è una carriera talmente grande e complessa che rischia di far venire le vertigini.
E’ davvero impressionante la vastità, la varietà e la qualità di una parabola artistica che sovente è stata ulteriormente arricchita da collaborazioni d’ogni genere. L’ultima impresa è di pochi giorni fa con il trionfale concerto tenuto alla Scala con l’emergente pianista classico Lang Lang.
Ma proviamo a fare qualche passo indietro verso la fine degli anni ‘60. In quel periodo il vento di rinnovamento che soffiava sul mondo del jazz spingeva il giovane talento ad interessarsi agli strumenti elettronici e contemporaneamente ad avvicinarsi ad altre forme stilistiche tra cui il funk.
E così dopo la sperimentazione spinta ed eterea nei primi dischi degli anni ‘70, Hancock vira decisamente verso un jazz più concreto, immediato e sanguigno. Per farlo decide di formare una nuova band chiamata Headhunters in cui il solo Bennie Maupin è reduce dal sestetto precedente.
Il successo clamoroso dell’album gli scatenerà contro orde di puristi jazz ma il tempo che è galantuomo restituirà il giusto valore a un’opera che ha imposto un nuovo modello di jazz fusion ed è tuttora fonte d’ispirazione per tanti musicisti jazz, funk, soul e hip hop.
“Watermelon man” è l’unica traccia non inedita del disco dato che originariamente era stata pubblicata nell’album d’esordio “Takin’ Off” del 1962 e qui viene nuovamente arrangiata da Hancock e dal batterista Harvey Mason. Con gli anni è divenuta uno standard jazz essendo stata registrata più di 200 volte e campionata spesso come base in molte versioni hip hop.
Come in tutto l’album, la canzone offre una notevole quantità di sintetizzatori tutti suonati da Hancock, una sezione ritmica che introduce robuste iniezioni di rhythm & blues e naturalmente l’inconfondibile groove funk che domina su tutto.
Il pezzo è introdotto da un suono morbido, esotico e surreale che ricorda certi flauti africani usati dai pigmei ed è stato ottenuto soffiando in una bottiglia di birra.
Da notare l’assenza completa delle chitarre che qui vengono rimpiazzate dall’uso del clavinet come spesso accade nel funk. Nel corso del brano, tramite il suo sterminato armamentario di sintetizzatori, Hancock definisce al meglio l’atmosfera di un funk rilassato e disteso che si giova non poco dell’avvolgente intreccio ritmico tra il basso di Paul Jackson ed il sax di Bennie Maupin.
Un pezzo che cattura immediatamente muovendosi con languida e insinuante disinvoltura tra le spire del jazz e del funk.
Da Musicarmonica.com
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